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Il futuro che fa paura

Tragedia a Osnago: nella notte un uomo di 80 anni, Francesco Iantorno, ha ucciso la figlia disabile di 45 anni, Rossana, e poi si è tolto la vita.

Un titolo di giornale, un breve commento e tutto scivola via. Ma non per noi, che comprendiamo il dramma che sta dietro a questa scelta così apparentemente innaturale. Per questo ci pare utile sottoporvi un’intervista rilasciata a un giornale locale da Gianluca Nicoletti, che ci pare dica parole non banali e pienamente condivisibili.


«Figli disabili e il futuro che fa paura»
La Provincia di Lecco del 28/10/2022

Gianluca Nicoletti, 68 anni, giornalista, editorialista de “La Stampa”, conduttore radiofonico per Radio 24, padre di Tommy, ragazzo autistico di 24 anni, da ormai un ventennio si occupa del tema del “dopo di noi” e si batte perché l’approccio italiano su questi temi cambi radicalmente.

Cosa ha pensato appena ha letto la notizia della tragedia di Osnago?
Ne ho seguiti talmente tanti di questi casi, che purtroppo non mi sorprende. È il grande dramma di ogni genitore di figlio disabile, soprattutto disabile di tipo psichico perché sono quelli che hanno meno autonomia, perché non hanno autonomia di pensiero, non possono pensare a loro stessi.

Che cosa passa nella testa di un genitore?
Si arriva a un certo punto in cui il figlio cresce, ma le tue forze ti abbandonano. Non trovi alternative umanamente possibile al fatto di occupartene in prima persona perché ovunque sarebbe rinchiuso, avrebbe una condizioni che reputi inumana. E poi sono persone che sono abituate alla loro routine, alla loro casa, alle sua abitudini. Non è che si debba essere rinchiusi, messi “in prigione” senza aver commesso alcun reato. Così arrivi all’estremo delle forze, non ti rendi conto che stai facendo sforzi che vanno oltre alla sopportazione. E arriva il punto che non ce la fai davvero più.

Cosa accade, a questo punto?
Il più grande incubo per un genitore in quella situazione non è morire, ma è lasciare un figlio che sai inerme in una condizione di infelicità. Questo è un pensiero che passa nella mente di tutti, poi c’è chi riesce ad elaborare e chi no. È una cosa atroce, un pensiero atroce, un pensiero che si cerca di allontanare da sé. Ma davanti all’idea dell’infelicità di una persona rinchiusa, sedata, maltrattata, basta leggere le notizie di cronaca, si può arrivare a concepire un gesto così estremo. Ormai sono tantissimi i casi. E qui c’è la domanda che mi faccio sempre: come mai non esiste una catena di solidarietà, di attenzione a questi casi. Non esiste e poi le persone scompaiono socialmente, scompare il figlio e scompare il genitore.

Che cosa si può fare per evitarlo?
Accade e accadrà sempre finché non ci sarà un sistema che realmente, gradualmente, darà delle sicurezze su una vita felice, perlomeno dignitosa, di tuo figlio quando tu non ci sarà più. E al momento non c’è. Le persone vanno prese in carico prima che si arrivi al momento estremo. Bisogna creare strutture umane, intermedie, non basate sullo sfruttamento della manodopera non specializzata. Un disabile costa allo stato 300-400 € al giorno, cifra che si prende la struttura che lo tiene in vita. Con quei costi credo si possa far fare una vita decente a una persona.

Invece non è così?
Non lo è perché si pensa al profitto. Si iniziano a mettere educatori non specializzati, non ci sono progetti di vita dignitosa. Si vuole solo tener in vita una persona per prendere la retta per più tempo possibile. Mi occupo di questo tema da 20 anni e mi sono reso conto che è un sistema che fa comodo a tutti, perché ognuno ha il suo interesse. Cosa sarebbe accaduto se questo padre di Osnago avesse lasciato la figlia in una struttura all’età di 20 anni? Lui avrebbe avuto una vita egoisticamente più gratificante per se stesso, ma lei sarebbe stata come una larva in una struttura.

Invece si è occupato della figlia finché è riuscito.
Questa ragazza fino a 47 anni è stata nel migliore dei mondi possibili: con il padre, in casa sua, aiutata, seguita, accudita, circondata dall’affetto finché il genitore non ce l’ha fatta più. Sopravvivere al padre ed entrare in una struttura sarebbe stata comunque una sorte di morte per questa ragazza. Sarebbe stata condannata ad altri 40 anni di inferno. Quel padre non se l’è sentita di condannarla ad altri 40 anni di inferno. La gente mi sente dire queste cose e mi dice che sono spietato, che è atroce. Io rispondo: vivete nelle mie condizioni e poi capirete che è un pensiero che passa per la testa. Lo rimandi indietro, lo rimandi indietro di nuovo e poi probabilmente arriva un punto in cui non vedi altra alternativa. Lo abbracci e dici andiamocene insieme.

Bisognerebbe prendersi cura anche dei genitori?
Il padre di Osnago prima di arrivare a questa decisione avrà espresso la sua disperazione in qualche modo. Li avranno visti sempre insieme. Nessuno si è domandato come ce la potesse fare ad andare avanti così? Lo Stato non dà alternative. Per farlo bisognerebbe iniziare ad educare delle persone che si occupano di questi ragazzi. Persone che vanno formate, pagate, per un progetto che richiede uno sforzo mentale ed ideologico. Non credo accadrà perché si parla di figli che socialmente nessuno rivendica se non la famiglia. Che iniziano ad avere un valore sociale quando diventano una retta.

La legge sul “dopo di noi” non ha cambiato nulla?
È una presa in giro enorme, non conosco una persona che l’abbia applicata. Io ho fatto una struttura per mio figlio impiegando tutti i soldi che ho guadagnato in 40 anni di lavoro. Secondo questa legge dovrei consegnarla allo Stato che ne farebbe quella che vuole e non è manco detto che mio figlio ci rimanga dopo che io non ci sarò più. Conosco genitori che hanno messo la propria casa a disposizione e poi, una volta morti, il loro figlio è stato trasferito altrove e l’abitazione usata per altri. Non si può più scegliere gli operatori, né il metodo educativo. È praticamente un esproprio volontario.

E in futuro? Ci sono speranze di miglioramento?
Se le vedessi sarei più sollevato. Io mi sono organizzato la vita, trasmetto la radio dallo stesso posto dove tengo mio figlio. Da lì scrivo. Siamo una famiglia dedicata a dare una vita dignitosa a un nostro congiunto che è il più fragile di noi. La madre ce la fa meno di me, io mi tengo su; l’altro figlio ci dà una mano, ma fa concorsi e studia per diventare ambasciatore e spero girerà per il mondo.

Quanto è difficile?
Io ho 68 anni e inizio a rendermi conto che non ce la faccio mica più tanto a star dietro a figlio che è un gigante di 24 anni. L’altro giorno ha avuto un attacco ed ero solo a contenerlo con mia moglie. È sempre difficile, appena c’è una situazione che esce un po’ dalla sua routine ci sono problemi. In questi giorni ho organizzato la sua mostra perché fa l’artista e voglio che abbia una sua dignità, una sua esistenza. E ora sono fisicamente finito perché ho fatto il mio lavoro e poi preparato l’allestimento. La gente pensa che faccia una bella vita, invece ho una vita socialmente inesistente. Chiarisco: con mio figlio ci sto volentieri, mi diverte, ma ogni giorno che passa mi chiedo fino a quando ce la farò. Il problema è che sono umano. 

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